Angelo Crespi presenta il suo libro “Nostalgia della bellezza”
Una chiacchierata con Angelo Crespi, autore del libro
“NOSTALGIA DELLA BELLEZZA. Perché l’arte contemporanea ama il brutto e il mercato ci specula sopra”
(Giubilei Regnani editore, pagg. 194, euro 14,00). Da aprile 2021 on line e in tutte libreria.
Il sottotitolo del libro è: “Perché l’arte contemporanea ama il brutto e il mercato ci specula sopra” stuzzica! Stuzzica per forza. Perché è la bruttezza che vince. Ed è sulla bruttezza che si incassano i quattrini. Partiamo dall’esempio cui fa riferimento nel suo “La nostalgia della bellezza” E quindi ragioniamo a partire dalla citata banana. Quella di Cattelan. Appiccicata col nastro adesivo (per giunta “da pacco”) al muro della trentaseiesima edizione di art Basel a Miami… una banana venduta a 120mila dollari. E dopo? Dopo David Datuna (un artista) la stacca dal muro e la mangia davanti alle telecamere. Ricordo un battitore d’Asta che scuoteva la testa, desolato, tenendo tra le mani la piccola tela di Ludovico Cardi detto il Cigoli, (pittore fine Cinquecento) Secondo lui… non era vendibile. Non valeva nemmeno la pena metterlo in asta (nonostante fosse siglato) perché ritraeva un San Francesco (per giunta penitente): “EDDAI…alla gente non piace!” La banana invece si?! La banana piace fino a svettare alla cifra di 120.000 dollari? Perbacco! E come mai?!
E’ uno dei tanti casi insensati dell’arte contemporanea.
La questione si chiude all’interno del cerchio ristretto dell’art system: una galleria importante di Parigi espone la banana pensata da un famoso artista, un ricco collezionista, anonimo, la paga 120 mila euro, un altro artista meno famoso se la mangia. Tutto questo spettacolo non esce dal perimetro del teatrino di Art Basel Fair Miami, ha un riflesso all’esterno solo grazie ai media. Ma a pensarci non c’è nessun contatto con la realtà, la banana non ci dice nulla di interessante su di noi, sulla nostra vita, sull’amore, sulla bellezza, sul mondo, sulla morte; ci dice solo che il meccanismo dell’arte contemporanea è malato e che qualcuno ci vuole guadagnare. Ho un retropensiero: guarda caso, alla fine, il ricco collezionista filantropo anonimo ha donato la banana al museo Guggenheim di New York a cui spetterebbe, da un lato, il compito di sostituirla all’infinito nel mentre che marcisce, dall’altro di attribuire definitiva aurea all’opera e aumentare la fama e il valore all’artista. Ovviamente i contemporaneisti si sono sdilinquiti sulla banana cercando di motivarne il senso. Ma dall’orinatoio di Duchamp, e sono passati più di 100 anni, l’idea che un qualsiasi oggetto possa diventare un’opera d’arte è diventata una barzelletta che non fa più ridere.
Sempre più spesso i musei sono riempiti di giostre…
Nel 2020 – su un quotidiano on line (specializzato in arte e cultura) – ha scritto: “Sempre più spesso, i musei si sono riempiti di giostre e giochi e piste da skateboard e scivoli che ricordano i vecchi luna park coi calcinculo, quelli che dalle mie parti si chiamavano baracconi. Queste installazioni mi fanno tanta più tristezza quanto più vorrebbero essere divertenti. Poi, ci sono state le stravaganze: opere che vorrebbero stupire per la loro stranezza, o ributtanza, che perseguono l’orrendo, il mostruoso, l’insensato, meglio se tutto insieme…”.
Descrizione divertente e suggestiva. Che proietta sull’abilità dei commercianti – e dei critici – la vera responsabilità, se non di tutta, di molta arte contemporanea: e cioè quella di far lievitare il prezzo di un oggetto che battezziamo per “arte”. Insomma la genialità o se vogliamo, “l’arte” di saper speculare. A questo punto, quali sarebbero i trucchi? Le leve dell’art system capaci di portare a compimento il miracolo? Quello di proporre – sul mercato dell’arte – un vero e proprio “calciinculo” del circo Barnum… e farcelo ammirare come se stessimo con le mani giunte davanti al ritrovamento di un Caravaggio?
“L’arte antica costava perché valeva, l’arte contemporanea vale perché costa”
Sintetizzo il problema, che mi espone, in una formula. “L’arte antica costava perché valeva, l’arte contemporanea vale perché costa”. Il fattore esiziale dell’arte contemporanea è dunque il prezzo e quanto più è alto quanto più quel qualsiasi oggetto, perfino orrendo e insensato, diventa per forza un’opera d’arte. Come può capire, la cosa è triste. Dunque il mercato è oggi il vero certificatore dell’arte, un mercato in cui spesso vince la speculazione di pochi, ricchissimi collezionisti in grado di determinarne le dinamiche e far lievitare il valore di un artista o di una corrente. Si è poi fatta strada anche l’idea, secondo me malsana, che l’arte può generare ricavi al pari delle azioni. La finanziarizzazione del mercato, cioè l’idea speculativa, produce ulteriori devianze. Per esempio, l’opera d’arte contemporanea per circolare velocemente deve essere fungibile, cioè scambiabile in modo facile: da qui nasce l’idea di opere senza un contenuto estetico forte che altrimenti potrebbe limitarne la circolazione, visto che un acquirente potrebbe preferirne una all’altra. Diversamente se sono tutte uguali o simili, me ne posso privare senza troppi patemi. D’altronde nessuno si appende in casa un’azione.
Dato che le case d’aste (che generano gran parte del ricavo) patiscono i lockdown…
rimane un’ultima domanda I super-ricchi diventeranno ancora più ricchi. E questo l’abbiamo capito. Ma che ne sarà della loro riserva di “arte spazzatura”? Cioè di arte “cool”? Di robaccia-alla-moda? Che ne sarà della loro “collezione di banane”? Se non farà più mercato? Se l’investimento andrà a perdere? Diventerà quella – diciamola così- banconota falsa che rifileranno a noi mortali?
Posto che i super ricchi dopo la pandemia sono ancor più ricchi,
l’arte nata morta non avrà grandi problemi e sarà ancora venduta a prezzi stratosferici. Ma… ma c’è un ma. Sono fermamente convinto – e lo spiego bene nel libro – che il concetto di arte contemporanea non sia legato al fattore cronologico. Con “arte contemporanea” deve essere definita non tanto l’arte che ci è coeva, bensì uno stile che ha strettamente a che fare con l’arte concettuale, in cui si predilige il concetto all’opera, il pensiero al fare. E per questa ragione è il primo stile nella storia che tende al fatto male cioè al brutto. La cosa che mi rende felice è che quando cambierà lo stile, e accadrà, molte opere di questa “arte contemporanea” che pretende di essere per sempre contemporanea ci appariranno passate come ai neoclassici dovette sembrare il Barocco, e dunque orrende, assurde, e alcuni collezionisti dovranno buttare nella spazzatura gli squali sotto formaldeide, gli emoritratti, le installazioni fatte di muco e piscio, gli stronzi giganti, e altre amenità del genere.
Angelo Crespi